giovedì 22 marzo 2007

Contro il NARTH!

Ecco un coraggioso video, tradotto in italiano, sulla presunta psicoterapia
del Dott. (?) Nicolosi.


Cosa aspetta l'Ordine degli Psicologi a prendere posizione contro questi abusi?

mercoledì 21 marzo 2007

Metta Sutta – Discorso sulla benevolenza universale

Così dovrebbe agire chi pratica il bene
e conosce il sentiero della pace:
essere solerte, retto e sincero,
cortese nel parlare, gentile e umile,
dalla vita frugale, non gravato da impegni,
sereno, soddisfatto con poco,
calmo e discreto,
non altero o esigente.
E non fare ciò che i saggi disapprovano.

Che tutti gli esseri vivano felici e sicuri,
tutti, chiunque essi siano:
deboli o forti,
lunghi o possenti,
alti, medi o minuscoli,
visibili e non visibili,
vicini e lontani,
già nati o ancora non nati.

Che tutte le creature siano felici! Che nessuno inganni l’altro,
né lo disprezzi,
né con odio o ira
desideri il suo male.

Come una madre con la sua vita
protegge suo figlio, il suo unico figlio;
così con cuore aperto
si abbia cura di ogni essere,
irradiando benevolenza sull’universo intero,
in alto verso il cielo, in basso verso gli abissi,
in ogni luogo senza limitazioni,
liberi da odio e rancore.

Fermi o camminando, seduti o distesi,
sempre quando si è svegli,
mantenere desta questa consapevolezza:
tale è la sublime dimora.
Il puro di cuore, non legato ad opinioni,
dotato di chiara visione,
liberato da brame sensuali,
di certo non tornerà a nascere in questo mondo.

Comunità Bodhidharma

martedì 20 marzo 2007

Buddhisti Imperfetti

L’idea non è nuova.
La potete trovare in Nietzsche, tanto per citare qualcuno ben più profondo e capace di me. Quello che intendo dimostrare è che il cristianesimo che oggi si vive intorno a noi, quello dei papa-boys (che termine osceno!) o delle tante persone ex-boys ed ex-girls che praticano il cristianesimo, ha poco a che fare con quest’ultimo. A mio giudizio si tratta di una forma di imperfetto buddismo. E cercherò di spiegare perché.

Il problema centrale del buddhismo è la sofferenza. Tutta la pratica buddhista, meditazione, etica e, per le varianti che lo prevedono, culto hanno l’obiettivo di liberarci dalla sofferenza. La causa della sofferenza è la nostra ignoranza: scambiamo quello che è instabile per stabile e ci aggrappiamo ad esso, cercando in tutti i modi di non farlo cambiare. Tutta la nostra realtà è così: nulla resta fermo, mai. Sperare che chi ci ama, ciò che ci piace, i nostri sentimenti, noi stessi, tutto resti così com’è (e credere questo quando ci troviamo in situazioni difficili – ossia credere che nulla cambierà mai) questa è la radice della sofferenza.

Il problema centrale de cristianesimo è la salvezza dal peccato. Termine assai sfuggente e che ormai solo i prelati della curia romana pronunciano (non senza tradurlo in eufemismi meno imbarazzanti come: “disordine morale”, “limite della natura umana”, “imperfezione dell’uomo”). Ma il peccato (e spero che qualcuno mi smentisca dimostrandomi che no ho capito) è il centro del cristianesimo: Gesu di Nazarteh , incarnazione della seconda persona della Trinità, è venuto sulla terra a liberarci da peccato. E come? Ricordiamo, per chi avesse dimenticato il catechismo, che
1. il peccato è , prima che azione immorale contro gli uomini, offesa a Dio
2. in quanto tale esso va espiato
3. per espiare un peccato occorre il sacrificio
4. per espiare tutti i nostri peccati, Dio stesso si sacrifica(1).

Il nucleo della buona novella è che Dio ci ama, infatti manda il suo Figlio Unigenito a soffrire per noi.

Ora, quanti di noi crederebbero davvero a quello che ho scritto sopra? Pochi immagino. Nessuno di noi infatti crede più che ci sia un’entità superiore che si “offende” se mangio un dolce in più (la gola è un peccato tra i più dimenticati) o mi masturbo, o faccio sesso “fuori dal matrimonio”. Mi piacerebbe pensare che si offendesse per il traffico d’armi, la riduzione in schiavitù, la guerra, la violenza (oggetto di così poche prediche). Ma questo, prima che essere offesa ad un essere superiore, non sono azioni contro l’umanità? Se poi anche lui, ammesso esita come lo stiamo immaginando, si offende pure, bene: più siamo a combattere dalla stessa parte meglio è… certo non sembra partecipare all’altezza delle aspettative, vista la posizione di estremo vantaggio in cui opera.

Tornando a noi, la causa prima ed ultima dell’umana sofferenza è proprio il peccato. Questo secondo la dottrina cristiana (e si badi cristiana non cattolica, un po’ tutti i cristiani condividono questa impostazione) – ora, mi chiedo, con la leucemia di un bambino cosa c’entra il peccato? Si badi, non scelgo un cancro ai polmoni, l’AIDS, la guerra, o qualsiasi altra calamità provocata dall’uomo ma una malattia in un soggetto innocente, che è difficile collegare ad una offesa del medesimo, ad una ombrosa divinità. Di fronte a questo, e a molti altri accadimenti della nostra vita, il peccato è una spiegazione implausibile.

Ecco allora che si rivela l’altro aspetto cui mi riferisco: di fronte alla sofferenza ed al disagio, il cristianesimo si pone a metà tra una dottrina consolatoria ed un cammino (analogo al buddhismo) in cui siamo invitati ad accettare la sofferenza per quella che è. E’ il mistero della croce, che rimane mistero, e che pertanto va accettato, con la convinzione però che questa via è stata seguita addirittura prima da Dio incarnato e che dopo la sofferenza e la sconfitta, anche la più dolorosa ed inspiegabile, esiste la resurrezione e la speranza. Inutile dire che tutti noi sentiamo vicino questo messaggio. Inutile dire che personalmente trovo le dottrine consolatorie almeno sospette. Tuttavia, questa impostazione avvicina il cristianesimo ad una via “sapienzale” perchè invita il fedele a immergersi nel mistero, a comprenderlo e lasciarsi comprendere. E in quanto tale, è molto vicino al buddhismo.

Tutte queste idee hanno avuto una conferma diretta durante un viaggio in Colombia, che ho fatto in una missione cattolica nel Quindio, assieme a molti ragazzi di pochi anni più piccoli di me (ho 34 anni). Parlando con alcuni di essi, mi sono reso conto dello spaesamento cui erano (e, in parte, sono) immersi prima di incontrare o ritrovare la fede. La conoscenza che ci sia qualcuno che ci ama e che per noi ha preparato un progetto è quello che tutti questi ragazzi desiderano profondamente. Non si sentono peccatori, anche se si sentono in colpa perché inadeguati: alcuni, ad esempio, hanno avuto trascorsi difficili che li hanno portati da psicologi e psichiatri. Parlando con loro, mi sono reso conto che il loro primo ed unico cruccio è la sofferenza. E che quando gli parlavo di saggezza e compassione (i due pilastri della pratica buddhista) mi dicevano “Ma tu credi alle stesse cose che crediamo noi”.
Sì, credo alle stesse cose che credete voi. Ma non ho bisogno di ratifiche o di enti superiori. So che sono io ad amare, e so che ad amarmi sono le persone intorno a me. So che posso andare oltre la sofferenza, anche senza l’incarnazione di una entità superiore. So che tutti abbiamo una fede per vivere, perché senza fiducia in se stessi, nelle cose, non si vive. Ma ragazzi, sentirsi amati da un Entità Superiore non è un facile sostituto per l’amore che il nostro prossimo, i nostri cari, non ci hanno dato o ci hanno dato in modo diverso da quello che avremmo voluto? E come la mettiamo con l’altra faccia del cristianesimo? Soffrite perché siete peccatori? O perché siete vittime del peccato altrui? Sempre? E non credete di barattare, per la sensazione di essere amati, la vostra indipendenza critica accettando idee altrui, spesso molto discutibili?

Besos, e che Dio o chi per lui ci benedica!




(1) Anche s equesta è la posizione ufficiale, ci sono alcune voci che dissentirebbero profondamente da questa posizione. Una fra tutte è quella di René Girard, che cmq, nel suo ultimo lavoro "Verità o fede debole" ammette che quello di Gesù è stato un sacrificio. Non ne chiarisce il senso...Sembra cioè fare marcia indietro rispetto alle sue note posizioni, che avrebbero portato ad un Cristianesimo gnostico, molto interessante, impraticabile, e vicinissimo al Buddhismo.

La Comunità Gay, Lesbica, Bisessuale e Transessuale e pratica del Dharma: saggezza, compassione e interdipendenza

Il Dharma del Buddha è rivolto ad ogni essere umano: tutti noi, soggetti ai diversi condizionamenti della cultura, della società e della sessualità sperimentiamo ansie, gioie e dolori, senza distinzioni.
Come senza distinzione è la sofferenza, così senza distinzione è il dono del Dharma.
Così per ciascuno di noi, la pratica si realizza nella vita quotidiana, coinvolgendo i nostri affetti, i nostri difetti, le nostre delusioni: nessuno escluso, tutti siamo presi nella ruota del samsara. Partendo da questa considerazione, vorrei condividere alcune riflessioni sulla mia esperienza di gay e di praticante.

Interdipendenza e coming out


Uno degli aspetti che a mio avviso meritano più considerazione è l’esperienza dell’interdipendenza: com’è ovvio non può esserci una comunità GLBT o una Cultura Gay senza riconoscere l’esistenza di una comunità “eterosessuale” o una cultura “eterosessuale”; e questo è già riconoscere l’interdipendenza di queste due realtà.
Ma più in profondità, questo stato di fatto crea una divisone, in alcuni (e in me per molto tempo) addirittura una ferita – la nostra mente sembra non riesca a considerare una diversità senza giudicare uno dei due estremi come preferibile e migliore. Molti miei amici ed amiche hanno così perso la consapevolezza di essere parte della società in cui viviamo; questa divisione crea un solco nelle coscienze e molti preferiscono nascondere a se stessi e agli altri il loro orientamento e tutto quello che questo porta con se. Ecco quindi che il coming out, il venire allo scoperto, con se stessi, con gli altri, amici, parenti, posto di lavoro può diventare una occasione per ricostruire il senso di interdipendenza tra me, omosessuale, e te, eterosessuale, tra la comunità GLBT e il resto della comunità, delle comunità. Dire “Eccomi sono qui, sono omosessuale e mi sento degno quanto te” riconosce all’altro dignità nel momento stesso in cui la si riconosce per se stessi.

Da questo possono discendere molte conseguenze positive: entrambi ora hanno una maggiore responsabilità. Come gay, quando faccio coming out mi assumo la responsabilità della mia vita, mi riconosco al centro di essa, ho la responsabilità di combattere contro l’ignoranza che mi circonda e che produce molta sofferenza. Per chi riceve questa rivelazione, c’è la responsabilità di vedere come l’ignoranza si manifesta in comportamenti ostili o irrisori, a cui spesso non si fa neppure caso. Il terreno ora è comune, ora in siamo consapevoli di essere collegati.

Saggezza e gay life style

Per i praticanti di Dharma ogni ambito della vita è un’occasione. Nel modo di vivere medio dei gay, l’unico di cui posso parlare con cognizione di causa, ho spesso incontrato comportamenti autolesionisti e superficiali: sentirsi separati e rifiutati in qualche modo ci ha portato a coltivare alcuni modelli molto superficiali di incontro. A tutti noi gay (ma anche a molti eterosessuali) è capitato di avere incontri casuali, sesso quasi anonimo, relazioni poco durevoli e insoddisfacenti.

Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: dietro alcuni di questi comportamenti posso celarsi disagi, personali difficoltà di incontro come pure rispettabilissime considerazioni personali di chi ritiene che il sesso sia una esperienza da vivere nella massima libertà e rispetto reciproco. Ognuno, anche in questo caso come ci insegna la parabola dell’elefante, tocca un solo frammento della realtà e cerca come può di farsi una ragione.

Tuttavia, parlando con alcuni amici in sintonia col pezzo di elefante che tocco io, mi sembra che il rincorrere modelli di bellezza giovanilistici, patinati o limitare la nostra attenzione sessuale solo ad alcuni aspetti della muscolatura, dell’abbigliamento o del carattere non sia proprio puntare alla cessazione delle cose vane, ossia al Nirvana (Non – Vano)...

Su questo, noi gay praticanti siamo chiamati ad un grande esercizio di saggezza: con il senso dell’umorismo che ci caratterizza, occorre smontare in noi, pezzo dopo pezzo, i modelli superficialmente edonistici, per lo più frutto di martellanti politiche commerciali, che generano tanta sofferenza nella vita delle persone. E per evitare il moralismo che da un esercizio del genere potrebbe scaturire: c’è chi ha visioni totalmente differenti – ed è un bene! Guai ad un solo punto di vista : come “diversi” dovremmo aver ben compreso il valore della diversità…

Dignità e compassione: sanare una ferita profonda

Molto spesso ho avuto modo di parlare con ragazzi e ragazze omosessuali, uomini e donne, profondamente feriti. Intendo qui la ferita della propria dignità, una dignità offesa da molti spesso nel modo più brutto: inconsapevolmente.

Si tratta di una ferita antica, spesso maturata nel rapporto con i propri cari.
Un ricordo tra molti mi è sempre rimasto impresso nel rapporto tra me e mia madre e credo che qui possa essere utile riportarlo. Avevo circa 12 anni, ero già consapevole di essere omosessuale. Parlando con mia madre, in un pomeriggio molto caldo, sulla terrazza di casa, entrammo in argomento. Non volevo dirle di me, perché non sapevo ancora bene che dire, lei però mi dichiarò chiaramente: “Meglio una figlia puttana che un figlio frocio”. Potete immaginare come mi sentii. Riporto questo, perché sia chiaro a quale tipo di ferita mi riferisco.

La pratica della compassione esige da noi gay di guarire queste ferite, in noi stessi e negli altri. Per far questo occorre evitare due estremi: il vittimismo e l’autodenigrazione.

Il vittimismo è un nemico insidioso: lamentele e proteste, azioni dimostrative di provocazione senza uno scopo chiaro sono manifestazione di vittimismo – “ecco guardate cosa ci avete fatto!” sembrano dire. E’ importante essere chiari: l’azione politica delle associazioni omosessuali non è vittimismo; quello che ho in mente ha degli esempi soprattutto nella vita delle persone che ho di fronte – è più privato che politico.

L’autodenigrazione è, se si può, un nemico ancora più insidioso: induce alcuni omosessuali a comportamenti autolesionisti (abusi di sostanze, rapporti sessuali a rischio) e molti di noi a non crederci degni di essere felici. E questa è la ferita più dolorosa: quanti di noi ricordano dichiarazioni irresponsabili di alti prelati cattolici in cui si condannavano tutti gli omosessuali alla solitudine? Vi immaginate una situazione di maggiore infelicità?Qui la pratica del Dharma ricorda ad ognuno che è degno della più alta felicità: tutti noi abbiamo la natura di Buddha, la possibilità di realizzare la fine della sofferenza, la più alta realizzazione.

Questa realizzazione non è solitaria e indipendente, ma la si raggiunge praticando insieme.

Che tutti noi possiamo essere felici!

giovedì 4 gennaio 2007

Io sono un dialogo

Io sono un dialogo: tra una Presenza ed il presente. Tra saggezza e compassione per tentare l'amore. Nell'evanescenza delle cose, l'oscillare e il ritornare parla al sogno di una Cosa.
Tra la Via e il Regno c'è un fiume che unisce e divide. Non ho altra scelta che essere quel fiume. Anche solo una goccia. Così per ora sto su una sponda, e fisso il fiume: come si entra senza affogare?
Non posso che avere fiducia, e cercare.

mercoledì 3 gennaio 2007

René Girard e l’illusione del sacrificio

"Chi cerca trova". Così indagando sul tema del sacrificio ho trovato René Girard, autore che consiglio a tutti: chiaro, stimolante – chiunque si interessi di Cristianesimo lo troverà certamente … utile.

Il Nostro, del quale potrete leggere un interessante profilo su Wikipedia ciccando qui, promuove una tesi affascinante ed in defintiva semplice: partendo dall'essenza del nostro desiderio arriva ad indentificare il perverso meccanismo della violenza che ne deriva, concentrando la sua analisi sul sacrificio ed il suo ruolo.

Andiamo con ordine. Girard afferma che in tutti noi è presente e vivo un desiderio "metafisico" indifferenziato, plastico. Da questa indifferenziazione desiderante, nascono uno dopo l'altro i nostri mille deisideri attraverso un processo di mimesi: iniziamo a desiderare qualcosa perchè qualcun altro lo desidera. In un processo di copia (ossia di mimesi) impariamo a desiderare, a volere, a porci obiettivi, perchè qualcun altro desidera, vuole, si pone obiettivi.

Questa affermazione, che non ho la presunzione di riportare esattamente, è contemporaneamente stimolante e controversa: certamente il desiderio si apprende nelle forme e nei contenuti, ma dubito che si apprendano le molte spinte che ci animano... Tuttavia, chi di noi non si è sopreso ad esempio di quanto i gusti sessuali delle culture varino? Un amico di ritorno dal un paese nordafricano mi diceva che donne da noi francamente obese, là erano avvenenti e desiderate. E ancora, mio fratello voleva sempre quello che avevo io, solo perchè io ce l'avevo...

Tuttavia, questo fonda l'essere sociale dell'uomo. Quando desidera non è mai solo.

Dalla caratteristica mimetica del desiderio derivano diverse conseguenze, la prima, sul piano soggettivo, è che il modello (ossia colui che desidera ciò che anche noi desideriamo) diventa sia oggetto di imitazione e ammirazione che di invidia e odio - in entrambi i casi, il desiderio è connesso ad una opinione di sé davvero manchevole. La seconda, sul piano oggettivo, è l'inevitabile rivalità per ottenere ciò che molti desiderano.
Il pregio di questa concezione è di unire aspetti soggettivi ed oggettivi: il desiderio veicola sia un immagine di sé che un dato oggettuale: le risonanze con alcuni psicoanalisti del Sè, come Kohut, sono molto suggestive.

Una volta iniziato a desiderare, non c'è scampo, si inizia a rivaleggiare, ossia si cade nella violenza. Come un vortice, la violenza non può che crescere, alimentandosi di vendette reciproche in nome di quello stesso principio della mimesi, che ora sarebbe più opportuno chiamare reciprocità. La tensione all'interno di un gruppo contagiato dal desiderio diventa tanto forte, che diviene necessario trovare una scarica sicura di questa energia: si scopre il capro espiatorio, l'essere, uomo o animale, su cui si abbatte la violenza dell'intero gruppo, disposto a credere che ogni colpa, ogni peccato ricada su questa sventurata vittima.
Uccidere il capro espiatorio ha un effetto portentoso: riporta la pace tra i membri del gruppo. L'immagine della vittima che il gruppo si construisce può avere due aspetti, talvolta contemporanei, divino o esecrabile. Entrambi sanciscono l'esclusione dal gruppo, entrambi sono manifestazioni del sacro, che si caratterizza così come risultato della violenza.

Ora, afferma Girard, l'illusione del sacrificio, ossia credere consciamente che la vittima (animale, persona, gruppo sociale) sia il vero e unico responsabile della miseria percepita dagli uomini e delle loro violenza, sarebbe smascherata dalla vicenda umana di Gesù, che viene identificato come vittima innocente contro cui si scaglia una violenza immotivata: Gesù sarebbe l'anti-vittima, perchè attraverso il suo sacrificio ne comprendiamo l'orrore, la menzogna e l'inutilità. Nella sua vicenda si smaschera la violenza del sacrificio, il suo sacrificio ridà agli uomini la loro responsabilità come carnefici, si schiera con tutte le vittime, sempre per definizione innocenti, racconta la storia non dalla parte della maggioranza, ma della minoranza, esecrata e vilipesa. Il ribaltamento è totale: la vittima perdona il carnefice e spezza la reciprocità della vendetta. La violenza così non può più rinascere .

Ho riportato molto succintamente le tesi di questo autore; parla di cose che sento molto vicine ovviamente: una delle cose che mi impediscono di essere cristiano è proprio il sacrificio di espiazione che tutta la tradizione e le scritture unanimemente attribuiscono a Gesù. Devo dire che, nelle mie personali idiosincrasie, ho per un attimo vacillato - ho pensato che forse quello che mi affascina del cristianesimo non è in contraddizione con l'essere una persona civile, che si rifiuta di pensare che serva un sacrificio di sangue per cancellare un'offesa a Dio, definito come Dio d'amore...
Eppure ho dovuto retrocedere, e per questi motivi.

1. Il Buddhismo parte da una analisi molto raffinata del desiderio "metafisico" che in questo contesto viene chiamato sete. Il Buddha afferma chiaramente (II Nobile Verità) che è la sete la causa della sofferenza umana. Tutta la pratica punta a questo, estinguere questa sete che "brucia" e per cui solo il Nirvana, il Rinfrescante, è la soluzione. Niente che si possa desiderare su questa terra o in cielo possono impedire di soffrire, solo il Nirvana, che non possiamo desiderare, ma solo realizzare, è la risposta. Per il fatto stesso di non poter essere desiderato, ossia afferrato, oggetto di attaccamento, non può essere concepito dal pensiero, se non per metafore, similitudini, limitate e che non vanno mai presa alla lettera (... il dito punta alla luna, fissare il dito è quasi satanico ...): ho sempre sentito profonde assonanze tra il Regno è la Via... Ma ancora non ho capito come legarle.
2. Il Buddhismo da sempre esclude il sacrificio.
3. Mi sembra che questa interpretazione dei Vangeli non manchi di una forte dose di verità, di cui forse solo oggi le nostre società secolarizzate si rendono conto. Personalmente sono convinto che, con il maturare di una civiltà, la violenza divenga sempre più intollerabile. L'interpetazione di Girard è figlia del nostro tempo, in cui nessuno davvero potrebbe credere che un sacrificio cancelli i peccati, l'iconografia cruenta di cui tutto il Cristianesimo è pervaso ci diventa giorno dopo giorno aliena, sia perchè in pochi siamo oramai disposti a rinunciare a qualcosa per un bene più grande, sia perchè per la nostra coscienza (cattiva?) di occidentali del XXI secolo la violenza è sempre più un tema imbarazzante.
4. Girard afferma che il sacrificio volontario di un innocente smaschera il meccanismo vittimario. E tuttavia questo meccanismo si è perpetuato, e mi sembra si è trasformato nel suo contrario, come tutta la tradizione cristiana mi sembra attestare.
5. La ragionevolezza non sarebbe bastata? Molti filosofi e liberi pensatori hanno parlato contro la violenza, e contro l'idea che un capro espiatorio possa risolvere problemi e tensioni: ad esempio Marc'Aurelio proibì i giochi dei gladiatori, nessun romano di cultura medio-alta avrebbe trovato i giochi del circo "decenti"... non c'era altro modo? Occorreva un anti-sacrificio?

In conclusione, non ho conclusioni: il che mi sembra un ottimo punto di partenza.

Interdipendenza e Coming Out: Buddhismo e omosessualità


Il Dharma del Buddha è rivolto ad ogni essere umano: tutti noi, soggetti ai diversi condizionamenti della cultura, della società e della sessualità sperimentiamo ansie, gioie e dolori, senza distinzioni.

Come senza distinzione è la sofferenza, così senza distinzione è il dono del Dharma.

Così per ciascuno di noi, la pratica si realizza nella vita quotidiana, coinvolgendo i nostri affetti, i nostri difetti, le nostre delusioni: nessuno escluso, tutti siamo presi nella ruota del samsara. Partendo da questa considerazione, vorrei condividere alcune riflessioni sulla mia esperienza di gay e di praticante.

Interdipendenza e coming out

Uno degli aspetti che a mio avviso meritano più considerazione è l’esperienza dell’interdipendenza: com’è ovvio non può esserci una comunità GLBT o una Cultura Gay senza riconoscere l’esistenza di una comunità “eterosessuale” o una cultura “eterosessuale”; e questo è già riconoscere l’interdipendenza di queste due realtà.

Ma più in profondità, questo stato di fatto crea una divisone, in alcuni (e in me per molto tempo) addirittura una ferita – la nostra mente sembra non riesca a considerare una diversità senza giudicare uno dei due estremi come preferibile e migliore. Molti miei amici ed amiche hanno così perso la consapevolezza di essere parte della società in cui viviamo; questa divisione crea un solco nelle coscienze e molti preferiscono nascondere a se stessi e agli altri il loro orientamento e tutto quello che questo porta con se. Ecco quindi che il coming out, il venire allo scoperto, con se stessi, con gli altri, amici, parenti, posto di lavoro può diventare una occasione per ricostruire il senso di interdipendenza tra me, omosessuale, e te, eterosessuale, tra la comunità GLBT e il resto della comunità, delle comunità. Dire “Eccomi sono qui, sono omosessuale e mi sento degno quanto te” riconosce all’altro dignità nel momento stesso in cui la si riconosce per se stessi.

Da questo possono discendere molte conseguenze positive: entrambi ora hanno una maggiore responsabilità. Come gay, quando faccio coming out mi assumo la responsabilità della mia vita, mi riconosco al centro di essa, ho la responsabilità di combattere contro l’ignoranza che mi circonda e che produce molta sofferenza. Per chi riceve questa rivelazione, c’è la responsabilità di vedere come l’ignoranza si manifesta in comportamenti ostili o irrisori, a cui spesso non si fa neppure caso. Il terreno ora è comune, ora in siamo consapevoli di essere collegati.

Saggezza e gay life style

Per i praticanti di Dharma ogni ambito della vita è un’occasione. Nel modo di vivere medio dei gay, l’unico di cui posso parlare con cognizione di causa, ho spesso incontrato comportamenti autolesionisti e superficiali: sentirsi separati e rifiutati in qualche modo ci ha portato a coltivare alcuni modelli molto superficiali di incontro. A tutti noi gay (ma anche a molti eterosessuali) è capitato di avere incontri casuali, sesso quasi anonimo, relazioni poco durevoli e insoddisfacenti.

Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: dietro alcuni di questi comportamenti posso celarsi disagi, personali difficoltà di incontro come pure rispettabilissime considerazioni personali di chi ritiene che il sesso sia una esperienza da vivere nella massima libertà e rispetto reciproco. Ognuno, anche in questo caso come ci insegna la parabola dell’elefante, tocca un solo frammento della realtà e cerca come può di farsi una ragione.

Tuttavia, parlando con alcuni amici in sintonia col pezzo di elefante che tocco io, mi sembra che il rincorrere modelli di bellezza giovanilistici, patinati o limitare la nostra attenzione sessuale solo ad alcuni aspetti della muscolatura, dell’abbigliamento o del carattere non sia proprio puntare alla cessazione delle cose vane, ossia al Nirvana (Non – Vano)...

Su questo, noi gay praticanti siamo chiamati ad un grande esercizio di saggezza: con il senso dell’umorismo che ci caratterizza, occorre smontare in noi, pezzo dopo pezzo, i modelli superficialmente edonistici, per lo più frutto di martellanti politiche commerciali, che generano tanta sofferenza nella vita delle persone. E per evitare il moralismo che da un esercizio del genere potrebbe scaturire: c’è chi ha visioni totalmente differenti – ed è un bene! Guai ad un solo punto di vista : come “diversi” dovremmo aver ben compreso il valore della diversità…

Dignità e compassione: sanare una ferita profonda

Molto spesso ho avuto modo di parlare con ragazzi e ragazze omosessuali, uomini e donne, profondamente feriti. Intendo qui la ferita della propria dignità, una dignità offesa da molti spesso nel modo più brutto: inconsapevolmente.
Si tratta di una ferita antica, spesso maturata nel rapporto con i propri cari.

Un ricordo tra molti mi è sempre rimasto impresso nel rapporto tra me e mia madre e credo che qui possa essere utile riportarlo. Avevo circa 12 anni, ero già consapevole di essere omosessuale. Parlando con mia madre, in un pomeriggio molto caldo, sulla terrazza di casa, entrammo in argomento. Non volevo dirle di me, perché non sapevo ancora bene che dire, lei però mi dichiarò chiaramente: “Meglio una figlia puttana che un figlio frocio”. Potete immaginare come mi sentii. Riporto questo, perché sia chiaro a quale tipo di ferita mi riferisco.

La pratica della compassione esige da noi gay di guarire queste ferite, in noi stessi e negli altri. Per far questo occorre evitare due estremi: il vittimismo e l’autodenigrazione.

Il vittimismo è un nemico insidioso: lamentele e proteste, azioni dimostrative di provocazione senza uno scopo chiaro sono manifestazione di vittimismo – “ecco guardate cosa ci avete fatto!” sembrano dire. E’ importante essere chiari: l’azione politica delle associazioni omosessuali non è vittimismo; quello che ho in mente ha degli esempi soprattutto nella vita delle persone che ho di fronte – è più privato che politico.

L’autodenigrazione è, se si può, un nemico ancora più insidioso: induce alcuni omosessuali a comportamenti autolesionisti (abusi di sostanze, rapporti sessuali a rischio) e molti di noi a non crederci degni di essere felici. E questa è la ferita più dolorosa: quanti di noi ricordano dichiarazioni irresponsabili di alti prelati cattolici in cui si condannavano tutti gli omosessuali alla solitudine? Vi immaginate una situazione di maggiore infelicità?
Qui la pratica del Dharma ricorda ad ognuno che è degno della più alta felicità: tutti noi abbiamo la natura di Buddha, la possibilità di realizzare la fine della sofferenza, la più alta realizzazione.

Questa realizzazione non è solitaria e indipendente, ma la si raggiunge praticando insieme.

Che tutti noi possiamo essere felici!

Per iniziare


Per iniziare un dialogo: tra chi cerca e chi ha trovato.
Uno spazio aperto per parlare di Dharma e di Logos.
Chi può parli - o scriva.