mercoledì 3 gennaio 2007

Interdipendenza e Coming Out: Buddhismo e omosessualità


Il Dharma del Buddha è rivolto ad ogni essere umano: tutti noi, soggetti ai diversi condizionamenti della cultura, della società e della sessualità sperimentiamo ansie, gioie e dolori, senza distinzioni.

Come senza distinzione è la sofferenza, così senza distinzione è il dono del Dharma.

Così per ciascuno di noi, la pratica si realizza nella vita quotidiana, coinvolgendo i nostri affetti, i nostri difetti, le nostre delusioni: nessuno escluso, tutti siamo presi nella ruota del samsara. Partendo da questa considerazione, vorrei condividere alcune riflessioni sulla mia esperienza di gay e di praticante.

Interdipendenza e coming out

Uno degli aspetti che a mio avviso meritano più considerazione è l’esperienza dell’interdipendenza: com’è ovvio non può esserci una comunità GLBT o una Cultura Gay senza riconoscere l’esistenza di una comunità “eterosessuale” o una cultura “eterosessuale”; e questo è già riconoscere l’interdipendenza di queste due realtà.

Ma più in profondità, questo stato di fatto crea una divisone, in alcuni (e in me per molto tempo) addirittura una ferita – la nostra mente sembra non riesca a considerare una diversità senza giudicare uno dei due estremi come preferibile e migliore. Molti miei amici ed amiche hanno così perso la consapevolezza di essere parte della società in cui viviamo; questa divisione crea un solco nelle coscienze e molti preferiscono nascondere a se stessi e agli altri il loro orientamento e tutto quello che questo porta con se. Ecco quindi che il coming out, il venire allo scoperto, con se stessi, con gli altri, amici, parenti, posto di lavoro può diventare una occasione per ricostruire il senso di interdipendenza tra me, omosessuale, e te, eterosessuale, tra la comunità GLBT e il resto della comunità, delle comunità. Dire “Eccomi sono qui, sono omosessuale e mi sento degno quanto te” riconosce all’altro dignità nel momento stesso in cui la si riconosce per se stessi.

Da questo possono discendere molte conseguenze positive: entrambi ora hanno una maggiore responsabilità. Come gay, quando faccio coming out mi assumo la responsabilità della mia vita, mi riconosco al centro di essa, ho la responsabilità di combattere contro l’ignoranza che mi circonda e che produce molta sofferenza. Per chi riceve questa rivelazione, c’è la responsabilità di vedere come l’ignoranza si manifesta in comportamenti ostili o irrisori, a cui spesso non si fa neppure caso. Il terreno ora è comune, ora in siamo consapevoli di essere collegati.

Saggezza e gay life style

Per i praticanti di Dharma ogni ambito della vita è un’occasione. Nel modo di vivere medio dei gay, l’unico di cui posso parlare con cognizione di causa, ho spesso incontrato comportamenti autolesionisti e superficiali: sentirsi separati e rifiutati in qualche modo ci ha portato a coltivare alcuni modelli molto superficiali di incontro. A tutti noi gay (ma anche a molti eterosessuali) è capitato di avere incontri casuali, sesso quasi anonimo, relazioni poco durevoli e insoddisfacenti.

Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: dietro alcuni di questi comportamenti posso celarsi disagi, personali difficoltà di incontro come pure rispettabilissime considerazioni personali di chi ritiene che il sesso sia una esperienza da vivere nella massima libertà e rispetto reciproco. Ognuno, anche in questo caso come ci insegna la parabola dell’elefante, tocca un solo frammento della realtà e cerca come può di farsi una ragione.

Tuttavia, parlando con alcuni amici in sintonia col pezzo di elefante che tocco io, mi sembra che il rincorrere modelli di bellezza giovanilistici, patinati o limitare la nostra attenzione sessuale solo ad alcuni aspetti della muscolatura, dell’abbigliamento o del carattere non sia proprio puntare alla cessazione delle cose vane, ossia al Nirvana (Non – Vano)...

Su questo, noi gay praticanti siamo chiamati ad un grande esercizio di saggezza: con il senso dell’umorismo che ci caratterizza, occorre smontare in noi, pezzo dopo pezzo, i modelli superficialmente edonistici, per lo più frutto di martellanti politiche commerciali, che generano tanta sofferenza nella vita delle persone. E per evitare il moralismo che da un esercizio del genere potrebbe scaturire: c’è chi ha visioni totalmente differenti – ed è un bene! Guai ad un solo punto di vista : come “diversi” dovremmo aver ben compreso il valore della diversità…

Dignità e compassione: sanare una ferita profonda

Molto spesso ho avuto modo di parlare con ragazzi e ragazze omosessuali, uomini e donne, profondamente feriti. Intendo qui la ferita della propria dignità, una dignità offesa da molti spesso nel modo più brutto: inconsapevolmente.
Si tratta di una ferita antica, spesso maturata nel rapporto con i propri cari.

Un ricordo tra molti mi è sempre rimasto impresso nel rapporto tra me e mia madre e credo che qui possa essere utile riportarlo. Avevo circa 12 anni, ero già consapevole di essere omosessuale. Parlando con mia madre, in un pomeriggio molto caldo, sulla terrazza di casa, entrammo in argomento. Non volevo dirle di me, perché non sapevo ancora bene che dire, lei però mi dichiarò chiaramente: “Meglio una figlia puttana che un figlio frocio”. Potete immaginare come mi sentii. Riporto questo, perché sia chiaro a quale tipo di ferita mi riferisco.

La pratica della compassione esige da noi gay di guarire queste ferite, in noi stessi e negli altri. Per far questo occorre evitare due estremi: il vittimismo e l’autodenigrazione.

Il vittimismo è un nemico insidioso: lamentele e proteste, azioni dimostrative di provocazione senza uno scopo chiaro sono manifestazione di vittimismo – “ecco guardate cosa ci avete fatto!” sembrano dire. E’ importante essere chiari: l’azione politica delle associazioni omosessuali non è vittimismo; quello che ho in mente ha degli esempi soprattutto nella vita delle persone che ho di fronte – è più privato che politico.

L’autodenigrazione è, se si può, un nemico ancora più insidioso: induce alcuni omosessuali a comportamenti autolesionisti (abusi di sostanze, rapporti sessuali a rischio) e molti di noi a non crederci degni di essere felici. E questa è la ferita più dolorosa: quanti di noi ricordano dichiarazioni irresponsabili di alti prelati cattolici in cui si condannavano tutti gli omosessuali alla solitudine? Vi immaginate una situazione di maggiore infelicità?
Qui la pratica del Dharma ricorda ad ognuno che è degno della più alta felicità: tutti noi abbiamo la natura di Buddha, la possibilità di realizzare la fine della sofferenza, la più alta realizzazione.

Questa realizzazione non è solitaria e indipendente, ma la si raggiunge praticando insieme.

Che tutti noi possiamo essere felici!

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