
Tra la Via e il Regno c'è un fiume che unisce e divide. Non ho altra scelta che essere quel fiume. Anche solo una goccia. Così per ora sto su una sponda, e fisso il fiume: come si entra senza affogare?
Non posso che avere fiducia, e cercare.
Uno spazio in cui parlare, incontrare, dialogare sul Dharma partendo dall'esperienza personale, sperando in un momento opportuno da cogliere.
Il Nostro, del quale potrete leggere un interessante profilo su Wikipedia ciccando qui, promuove una tesi affascinante ed in defintiva semplice: partendo dall'essenza del nostro desiderio arriva ad indentificare il perverso meccanismo della violenza che ne deriva, concentrando la sua analisi sul sacrificio ed il suo ruolo.
Andiamo con ordine. Girard afferma che in tutti noi è presente e vivo un desiderio "metafisico" indifferenziato, plastico. Da questa indifferenziazione desiderante, nascono uno dopo l'altro i nostri mille deisideri attraverso un processo di mimesi: iniziamo a desiderare qualcosa perchè qualcun altro lo desidera. In un processo di copia (ossia di mimesi) impariamo a desiderare, a volere, a porci obiettivi, perchè qualcun altro desidera, vuole, si pone obiettivi.
Questa affermazione, che non ho la presunzione di riportare esattamente, è contemporaneamente stimolante e controversa: certamente il desiderio si apprende nelle forme e nei contenuti, ma dubito che si apprendano le molte spinte che ci animano... Tuttavia, chi di noi non si è sopreso ad esempio di quanto i gusti sessuali delle culture varino? Un amico di ritorno dal un paese nordafricano mi diceva che donne da noi francamente obese, là erano avvenenti e desiderate. E ancora, mio fratello voleva sempre quello che avevo io, solo perchè io ce l'avevo...
Tuttavia, questo fonda l'essere sociale dell'uomo. Quando desidera non è mai solo.
Dalla caratteristica mimetica del desiderio derivano diverse conseguenze, la prima, sul piano soggettivo, è che il modello (ossia colui che desidera ciò che anche noi desideriamo) diventa sia oggetto di imitazione e ammirazione che di invidia e odio - in entrambi i casi, il desiderio è connesso ad una opinione di sé davvero manchevole. La seconda, sul piano oggettivo, è l'inevitabile rivalità per ottenere ciò che molti desiderano.
Il pregio di questa concezione è di unire aspetti soggettivi ed oggettivi: il desiderio veicola sia un immagine di sé che un dato oggettuale: le risonanze con alcuni psicoanalisti del Sè, come Kohut, sono molto suggestive.
Una volta iniziato a desiderare, non c'è scampo, si inizia a rivaleggiare, ossia si cade nella violenza. Come un vortice, la violenza non può che crescere, alimentandosi di vendette reciproche in nome di quello stesso principio della mimesi, che ora sarebbe più opportuno chiamare reciprocità. La tensione all'interno di un gruppo contagiato dal desiderio diventa tanto forte, che diviene necessario trovare una scarica sicura di questa energia: si scopre il capro espiatorio, l'essere, uomo o animale, su cui si abbatte la violenza dell'intero gruppo, disposto a credere che ogni colpa, ogni peccato ricada su questa sventurata vittima.
Uccidere il capro espiatorio ha un effetto portentoso: riporta la pace tra i membri del gruppo. L'immagine della vittima che il gruppo si construisce può avere due aspetti, talvolta contemporanei, divino o esecrabile. Entrambi sanciscono l'esclusione dal gruppo, entrambi sono manifestazioni del sacro, che si caratterizza così come risultato della violenza.
Ora, afferma Girard, l'illusione del sacrificio, ossia credere consciamente che la vittima (animale, persona, gruppo sociale) sia il vero e unico responsabile della miseria percepita dagli uomini e delle loro violenza, sarebbe smascherata dalla vicenda umana di Gesù, che viene identificato come vittima innocente contro cui si scaglia una violenza immotivata: Gesù sarebbe l'anti-vittima, perchè attraverso il suo sacrificio ne comprendiamo l'orrore, la menzogna e l'inutilità. Nella sua vicenda si smaschera la violenza del sacrificio, il suo sacrificio ridà agli uomini la loro responsabilità come carnefici, si schiera con tutte le vittime, sempre per definizione innocenti, racconta la storia non dalla parte della maggioranza, ma della minoranza, esecrata e vilipesa. Il ribaltamento è totale: la vittima perdona il carnefice e spezza la reciprocità della vendetta. La violenza così non può più rinascere .
Ho riportato molto succintamente le tesi di questo autore; parla di cose che sento molto vicine ovviamente: una delle cose che mi impediscono di essere cristiano è proprio il sacrificio di espiazione che tutta la tradizione e le scritture unanimemente attribuiscono a Gesù. Devo dire che, nelle mie personali idiosincrasie, ho per un attimo vacillato - ho pensato che forse quello che mi affascina del cristianesimo non è in contraddizione con l'essere una persona civile, che si rifiuta di pensare che serva un sacrificio di sangue per cancellare un'offesa a Dio, definito come Dio d'amore...
Eppure ho dovuto retrocedere, e per questi motivi.
1. Il Buddhismo parte da una analisi molto raffinata del desiderio "metafisico" che in questo contesto viene chiamato sete. Il Buddha afferma chiaramente (II Nobile Verità) che è la sete la causa della sofferenza umana. Tutta la pratica punta a questo, estinguere questa sete che "brucia" e per cui solo il Nirvana, il Rinfrescante, è la soluzione. Niente che si possa desiderare su questa terra o in cielo possono impedire di soffrire, solo il Nirvana, che non possiamo desiderare, ma solo realizzare, è la risposta. Per il fatto stesso di non poter essere desiderato, ossia afferrato, oggetto di attaccamento, non può essere concepito dal pensiero, se non per metafore, similitudini, limitate e che non vanno mai presa alla lettera (... il dito punta alla luna, fissare il dito è quasi satanico ...): ho sempre sentito profonde assonanze tra il Regno è la Via... Ma ancora non ho capito come legarle.
2. Il Buddhismo da sempre esclude il sacrificio.
3. Mi sembra che questa interpretazione dei Vangeli non manchi di una forte dose di verità, di cui forse solo oggi le nostre società secolarizzate si rendono conto. Personalmente sono convinto che, con il maturare di una civiltà, la violenza divenga sempre più intollerabile. L'interpetazione di Girard è figlia del nostro tempo, in cui nessuno davvero potrebbe credere che un sacrificio cancelli i peccati, l'iconografia cruenta di cui tutto il Cristianesimo è pervaso ci diventa giorno dopo giorno aliena, sia perchè in pochi siamo oramai disposti a rinunciare a qualcosa per un bene più grande, sia perchè per la nostra coscienza (cattiva?) di occidentali del XXI secolo la violenza è sempre più un tema imbarazzante.
4. Girard afferma che il sacrificio volontario di un innocente smaschera il meccanismo vittimario. E tuttavia questo meccanismo si è perpetuato, e mi sembra si è trasformato nel suo contrario, come tutta la tradizione cristiana mi sembra attestare.
5. La ragionevolezza non sarebbe bastata? Molti filosofi e liberi pensatori hanno parlato contro la violenza, e contro l'idea che un capro espiatorio possa risolvere problemi e tensioni: ad esempio Marc'Aurelio proibì i giochi dei gladiatori, nessun romano di cultura medio-alta avrebbe trovato i giochi del circo "decenti"... non c'era altro modo? Occorreva un anti-sacrificio?
In conclusione, non ho conclusioni: il che mi sembra un ottimo punto di partenza.
Il Dharma del Buddha è rivolto ad ogni essere umano: tutti noi, soggetti ai diversi condizionamenti della cultura, della società e della sessualità sperimentiamo ansie, gioie e dolori, senza distinzioni.
Come senza distinzione è la sofferenza, così senza distinzione è il dono del Dharma.
Così per ciascuno di noi, la pratica si realizza nella vita quotidiana, coinvolgendo i nostri affetti, i nostri difetti, le nostre delusioni: nessuno escluso, tutti siamo presi nella ruota del samsara. Partendo da questa considerazione, vorrei condividere alcune riflessioni sulla mia esperienza di gay e di praticante.
Interdipendenza e coming out
Uno degli aspetti che a mio avviso meritano più considerazione è l’esperienza dell’interdipendenza: com’è ovvio non può esserci una comunità GLBT o una Cultura Gay senza riconoscere l’esistenza di una comunità “eterosessuale” o una cultura “eterosessuale”; e questo è già riconoscere l’interdipendenza di queste due realtà.
Ma più in profondità, questo stato di fatto crea una divisone, in alcuni (e in me per molto tempo) addirittura una ferita – la nostra mente sembra non riesca a considerare una diversità senza giudicare uno dei due estremi come preferibile e migliore. Molti miei amici ed amiche hanno così perso la consapevolezza di essere parte della società in cui viviamo; questa divisione crea un solco nelle coscienze e molti preferiscono nascondere a se stessi e agli altri il loro orientamento e tutto quello che questo porta con se. Ecco quindi che il coming out, il venire allo scoperto, con se stessi, con gli altri, amici, parenti, posto di lavoro può diventare una occasione per ricostruire il senso di interdipendenza tra me, omosessuale, e te, eterosessuale, tra la comunità GLBT e il resto della comunità, delle comunità. Dire “Eccomi sono qui, sono omosessuale e mi sento degno quanto te” riconosce all’altro dignità nel momento stesso in cui la si riconosce per se stessi.
Da questo possono discendere molte conseguenze positive: entrambi ora hanno una maggiore responsabilità. Come gay, quando faccio coming out mi assumo la responsabilità della mia vita, mi riconosco al centro di essa, ho la responsabilità di combattere contro l’ignoranza che mi circonda e che produce molta sofferenza. Per chi riceve questa rivelazione, c’è la responsabilità di vedere come l’ignoranza si manifesta in comportamenti ostili o irrisori, a cui spesso non si fa neppure caso. Il terreno ora è comune, ora in siamo consapevoli di essere collegati.
Saggezza e gay life style
Per i praticanti di Dharma ogni ambito della vita è un’occasione. Nel modo di vivere medio dei gay, l’unico di cui posso parlare con cognizione di causa, ho spesso incontrato comportamenti autolesionisti e superficiali: sentirsi separati e rifiutati in qualche modo ci ha portato a coltivare alcuni modelli molto superficiali di incontro. A tutti noi gay (ma anche a molti eterosessuali) è capitato di avere incontri casuali, sesso quasi anonimo, relazioni poco durevoli e insoddisfacenti.
Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: dietro alcuni di questi comportamenti posso celarsi disagi, personali difficoltà di incontro come pure rispettabilissime considerazioni personali di chi ritiene che il sesso sia una esperienza da vivere nella massima libertà e rispetto reciproco. Ognuno, anche in questo caso come ci insegna la parabola dell’elefante, tocca un solo frammento della realtà e cerca come può di farsi una ragione.
Tuttavia, parlando con alcuni amici in sintonia col pezzo di elefante che tocco io, mi sembra che il rincorrere modelli di bellezza giovanilistici, patinati o limitare la nostra attenzione sessuale solo ad alcuni aspetti della muscolatura, dell’abbigliamento o del carattere non sia proprio puntare alla cessazione delle cose vane, ossia al Nirvana (Non – Vano)...
Su questo, noi gay praticanti siamo chiamati ad un grande esercizio di saggezza: con il senso dell’umorismo che ci caratterizza, occorre smontare in noi, pezzo dopo pezzo, i modelli superficialmente edonistici, per lo più frutto di martellanti politiche commerciali, che generano tanta sofferenza nella vita delle persone. E per evitare il moralismo che da un esercizio del genere potrebbe scaturire: c’è chi ha visioni totalmente differenti – ed è un bene! Guai ad un solo punto di vista : come “diversi” dovremmo aver ben compreso il valore della diversità…
Molto spesso ho avuto modo di parlare con ragazzi e ragazze omosessuali, uomini e donne, profondamente feriti. Intendo qui la ferita della propria dignità, una dignità offesa da molti spesso nel modo più brutto: inconsapevolmente.
Si tratta di una ferita antica, spesso maturata nel rapporto con i propri cari.
Un ricordo tra molti mi è sempre rimasto impresso nel rapporto tra me e mia madre e credo che qui possa essere utile riportarlo. Avevo circa 12 anni, ero già consapevole di essere omosessuale. Parlando con mia madre, in un pomeriggio molto caldo, sulla terrazza di casa, entrammo in argomento. Non volevo dirle di me, perché non sapevo ancora bene che dire, lei però mi dichiarò chiaramente: “Meglio una figlia puttana che un figlio frocio”. Potete immaginare come mi sentii. Riporto questo, perché sia chiaro a quale tipo di ferita mi riferisco.
La pratica della compassione esige da noi gay di guarire queste ferite, in noi stessi e negli altri. Per far questo occorre evitare due estremi: il vittimismo e l’autodenigrazione.
Il vittimismo è un nemico insidioso: lamentele e proteste, azioni dimostrative di provocazione senza uno scopo chiaro sono manifestazione di vittimismo – “ecco guardate cosa ci avete fatto!” sembrano dire. E’ importante essere chiari: l’azione politica delle associazioni omosessuali non è vittimismo; quello che ho in mente ha degli esempi soprattutto nella vita delle persone che ho di fronte – è più privato che politico.
L’autodenigrazione è, se si può, un nemico ancora più insidioso: induce alcuni omosessuali a comportamenti autolesionisti (abusi di sostanze, rapporti sessuali a rischio) e molti di noi a non crederci degni di essere felici. E questa è la ferita più dolorosa: quanti di noi ricordano dichiarazioni irresponsabili di alti prelati cattolici in cui si condannavano tutti gli omosessuali alla solitudine? Vi immaginate una situazione di maggiore infelicità?
Qui la pratica del Dharma ricorda ad ognuno che è degno della più alta felicità: tutti noi abbiamo la natura di Buddha, la possibilità di realizzare la fine della sofferenza, la più alta realizzazione.
Questa realizzazione non è solitaria e indipendente, ma la si raggiunge praticando insieme.
Che tutti noi possiamo essere felici!